Luigi Pirandello
ARTE E COSCIENZA D’OGGI
I
Da un pezzo a questa parte m’aspetto di tutto dai miei simili.
E m’aspettavo che Ruggero Bonghi finisse una sua conferenza tenuta a Napoli e intitolata: Questa fin di secolo, col rimettersi rassegnato e compunto nelle mani di Dio. «Bisognava» egli dice « che tanta scienza e tanta politica ci fosse passata davanti con cosi poco effetto sugli animi, quantunque in altri rispetti siano cosi diversi gli effetti della prima da quelli della seconda. È una esperienza dolorosa, ma pazientemente seguita quella che ci rimette Dio sulle labbra; e non su queste soltanto, ma nell’ardore del desiderio; che ce ne fa riapparire il pensiero come un’altissima cima, cui non è men faticoso che necessario poggiare, perché di lassù il mondo ci appaja come il campo di ciascun di noi, di un’opera intesa ad affratellare tutti nel lavoro, affratellarci non per forza di leggi e di ordinamenti sociali, distruttivi della natura e perciò condannati a fallire; ma per forza delle disposizioni morali dell’uomo, diventato buono. Giacché in ciò è tutto, nel diventar buoni, che vuol dire, nello spogliarsi di sé e viver per gli altri».
La citazione è forse un po’ troppo lunga; ma ho voluto rilevare uno dei segni più caratteristici del tempo. Non giudico e non condanno; dico soltanto, che il brano di prosa su citato potrebbe credersi uscito fresco fresco dalla penna del conte Leone Tolstoj.
Infatti nel libro Le mie confessioni del celebre romanziere e filosofo russo si legge, press’a poco, così: «Perdetti assai presto la fede. Vissi a lungo come tutti gli altri, della vanità della vita. Scrissi libri e insegnai, come gli altri, ciò che non sapevo. Poi l’ignoto incominciò a impormisi vieppiù terribilmente: svela il mio mistero, o t’anniento. Alla mia domanda costante, l’unica che abbia un significato: a quale scopo vivo io? la scienza mi porse risposte che m’insegnavano tutt’altra cosa, e mi lasciavano indifferente. La scienza mi disse soltanto: La vita è un male privo di senso. Volevo uccidermi. Finalmente mi venne l’idea di guardare come viveva la maggior parte degli uomini, quella che non si dedica come noi delle così dette classi elevate, a scrutare ed a pensare; ma che lavora e soffre e tuttavia è calma, tranquilla e conscia dello scopo della vita. Compresi che per vivere come quella gente bisognava far ritorno alla sua semplice fede».
E fece anche di più il conte Leone Tolstoi: scrisse l’assurda e pueril commedia I frutti dell’educazione.
Orbene, quest’appassionato dispregio per la scienza, questo disaiutarsi dell’anima che sa dei risultati della filosofia moderna, questo ritorno all’antica fede, sono appunto i segni caratteristici, di cui parlavo più sopra. Un altro esempio ce lo dà il Bourget coi suoi ultimi romanzi. Non parlo di Antonio Fogazzaro il quale veramente è stato sempre mistico, quantunque adesso, con assai strana aberrazione, si scervelli a cercare e creda sul serio d’aver trovato dei possibili accordi tra’ libri della scienza moderna e quelli antichissimi della fede. Né mette conto di parlare del poeta francese Paul Verlaine della scuola cosi detta simbolista, un degenerato, sostiene il Nordau, d’infima specie, vagabondo, carcerato per offese al buon costume, e or ritornato alla fede per trovare in questa la forza di resistere a volgarissimi istinti, più forti della fede e causa della sua pazzia.
Per altro a me non han fatto mai meraviglia certi peccatori moribondi, che reclamano Dio prima di chiuder gli occhi alla luce. Lo spirito moderno è profondamente malato, e invoca Dio come un moribondo pentito. Mi fa bensì meraviglia che si chiami Dio quel che in fondo è buio pesto. Ma non discutiamo.
Su per giù tutti i mali in cui, sul campo dell’arte, si contorce adesso lo spirito, possono andare affidati allo studio paziente della psichiatria. E già il Nordau su citato gli ha presi a studiare con molto ardire, se bene spesso, parmi, con non pari dottrina e ponderazione, nel suo recente volume: Degenerazione.
O buon Dio, e chi al presente non è un degenerato? chi può vantarsi sano? In tutti noi, ove più ove meno, possono rinvenirsi i segni o le stimmate (come le chiamano gli scienziati) fisiche e intellettuali della degenerazione! Lo credo; e non trovo nulla da ridire a un medico come il Morel, che le sorprende e le spiega. Debbo però pretendere ed esigere dal critico qualche cosa di più. Queste opere artistiche, queste opere letterarie, questi criteri di condotta sono frutti di cervelli avviliti, di organismi degenerati: sta bene! ma perché avviliti? perché degenerati? A questo appunto devono o dovrebbero almeno rispondere i critici d’arte e dei costumi.
Leggendo, ad esempio, lo studio del Morel: Du délire panophobique des aliénés gemisseurs, io posso rendermi conto benissimo di quale specie di malattia mentale dia segno il poeta portoghese Guerra Junqueiro nei suoi libri di versi, dove nessun pensiero riesce a concretarsi, a coordinarsi, libri pieni di lamenti e di singhiozzi senza legame e opprimenti.1 Son delirii, talvolta stupendi, ma che vi fan pensare a certi ammalati mentali presentati dal Morel, i quali ripetono le stesse parole, le stesse domande con una uniformità che porta alla disperazione. E lo stesso avviene leggendo alcune poesie dei poeti sedicenti preraffaellisti e simbolisti e decadenti, cui il D’Annunzio qualche volta, non so con quanto buon senso, imita (quando non li copia senz’altro).
Ora che il Lasègne ha detto la gran parola: «Il genio è una malattia nervosa» e il Lombroso ha scritto un libro dal titolo Genio e Follia, nessuno più si fa scrupolo di penetrare con la lente del medico alienista nei domini dell’arte; e per nessuno più è una fatica scoprir le piaghe che offendono e affliggono artisti e letterati. Basta aprire un romanzo o un libro di versi; basta entrare in una Galleria o esposizione d’arte moderna. Ecco li un pittore che è affetto di ambliopia isterica, Edoardo Gioja. Ecco un altro, che vede tutto tremolante e sfolgorante, il Cortese, affetto di tremolio della pupilla. E quest’altro qui sembra ammalato di acromatopsia: dipinge tutto col fango. Ed ecco infine un altro che vede tutto senza rilievo, e che dà alla tela certe lucentezze da porcellana, il Lojacono. Si – ma avete osservato i quadri di Aristide Sartorio, di questo giovine eletto tra gli eletti pittori moderni, il quale, ritiratosi da Roma ad Albano, tra questo lago e quel di Nemi, occhi attoniti della pianura laziale, ritrae in finissimi pastelli le scene più semplici e pure della Natura? Ma perché egli diffonde tanta e cosi intensa malinconia in quei suoi pastelli viventi, da restarne, e con pari intensità, compreso chi gli ammiri, quantunque in essi non sia artificio alcuno di colori deprimenti? Quei quadri son soli, e nella lor solitudine si sente l’abbandono; per quei laghi ora morbidi come azzurri veli di seta, or vaporosi, per quei boschi degradanti alle conche purissime dei laghi, folti di castagni selvatici, che si levano esili e dritti su cinerei steli nel loro desio del sole, nessuna figura umana; e pur l’uomo c’è nella mestizia del pittore, che gli ha contemplati e ritratti; e questa mestizia par che muova dai luoghi, dalla terra, che pur vi sorride innanzi nella sua bellezza. Si direbbe quasi che il pittore abbia ascoltato la voce della terra, una parola d’amore della madre dolente. Noi a spegner l’ardore della nostra sete inestinguibile le abbiamo frugate e aperte tutte le vene. Cerchiamo in lei ciò che ella non può darci, e la guardiamo con occhio malevolo. Un solo tesoro ella può darci: l’amore – ma questo né ci fa ricchi, né ci appaga. Vogliamo altro: vogliamo sapere! e nelle cupe smanie dell’impotenza dispregiamo noi stessi e la terra, che pure ogni anno per noi si rinnova e pare che per noi voglia celar le rughe coi fiori. L’uomo strappa quei fiori e s’incorona di spine.
«Non son fatte per noi le primavere».
II
La filosofia moderna ha mirato a spiegar l’universo come una vivente macchina, e s’è ingegnata di precisar la conoscenza che ne abbiamo. E poi passata a stabilire il posto dell’uomo nella natura, a interpretar la vita e a dedurne gli scopi.
La verità certamente non fu mai ladra: la frode a noi venne sempre dal troppo imaginare. Malinconico posto però questo che la scienza ha assegnato all’uomo nella natura, in confronto almeno a quello ch’egli s’imaginava in altri tempi di tenervi. Un poeta umorista potrebbe trovare in ciò motivo a qualche suo canto. Era un giorno la terra l’ombelico d’una sconfinata creazione. Tutto il cielo, il sole, gli astri s’aggiravan continuamente in torno a lei quasi per offrirle uno spettacolo e farle lume di e notte. Poteva ogni onesto mortale con le mani intrecciate sul ventre godersi beatamente quest’immenso spettacolo e lodarne in cuor suo il Signore Iddio, che aveva creato per lui tante cose belle, e il bue per dargli la carne, e l’uva pel vino, e il cavallo per la groppa, e cosi via di seguito. La luna a quei tempi scendeva lentamente sul mare agitato, il mare se la sorbiva come un grosso torlo d’uovo, e l’onesto mortale batteva le mani ed esclamava: – Si, questa scena è fatta bene!
Poi, quando finalmente moriva, cielo e inferno si mettevano in moto, angeli e diavoli si disputavano la sua anima, come si legge anche in un poema di Vincenzo Monti; e l’anima se ne saliva con gli angeli. Dove? Non si sapeva precisamente; ma si saliva in alto, in alto, nel regno dei cieli, in una regione, che l’astronomia moderna non conosce, detta paradiso, creata da Dio per sé e pei giusti. E là si godeva, e là si otteneva il premio e il compenso dei lunghi patimenti di quaggiù. Soffrire? Ma soffrir sulla terra era men che niente! Si chiedeva anzi di soffrire a pro dell’altra vita. Anzi la vita vera era il morire. E c’era stato più innanzi un altro tempo, in cui la terra era stata creduta patria di numi e certi uomini la passeggiavano per lungo e per largo, ritenendosi semidei, o armati o avvolti in ampie toghe. Oh che tempi eran quelli, e come l’uomo poteva pavoneggiarsi camuffato da greco del secolo di Pericle o da romano ai fulgidi soli della Repubblica. Civis romanus sum! E Roma era caput mundi. E al Sole, che era dio, e alla Luna, che era dea di molti nomi, Orazio sacerdote d’entrambi cantava che mai nulla di più grande avean veduto, che mai nulla di più grande avrebber veduto!
Ah i filosofi furono, sono e saranno in ogni tempo dei gran poltroni. Volentieri io rivolgerei loro quel motto brutale che un imperatore d’Austria soleva ripetere intorno ai poeti: «Sono i poeti una famiglia d’ammalati, che per professione sparge il malumore tra la gente». E avrei senz’altro cominciato dall’escluder per primo Platone stesso dalla sua repubblica ideale.
Sappiamo tutti, pur troppo, a che mai essi han ridotto ora la terra, questa povera nostra terra! Un atomo astrale incommensurabilmente piccolo, una trottoletta volgarissima lanciata un bel giorno dal sole e aggirantesi in torno a lui, cosi, per lo spazio, su immutabili orme. Che è divenuto l’uomo? Che è divenuto questo microcosmo, questo re dell’universo? Ahi povero re! Non vi vedete saltar dinanzi Re Lear armato d’una-scopa in tutta la sua tragica comicità? Di che farnetica egli? C’era una volta un superbo castello, un castello meraviglioso edificato su una rossa nube, una nube che parea di fiamma. Quel castello era la sua reggia, e il vento se la portò via. Tramontò il sole, e la nube si cangiò: divenne livida e poi man mano nera; finalmente si sciolse in acqua e quelle gocce parvero lagrime. Poi di quella pioggia nacquero su un piano certe tristi erbe cineree, irte di spine. Il re le colse, con le mani sanguinanti se ne fe’ una corona; quindi, si mise ad incedere tra una moltitudine di girini e ranocchietti, che springandogli innanzi e ai lati gracidavangli a coro: L’uomo è tutto fango! E allora quasi che egli ancora non si sentisse a bastanza piccolo, ecco certi fantasmi della sua mente impaurita farsi persone e venirgli innanzi. Gli stendono un manto sotto i piedi e lo innalzano a volo. E il poveretto smarrito per lo spazio senza fine domanda angosciosamente:
Sarà ver? quel breve
ceruleo globo nell’etere immerso,
cui s’accosta un minore al disco uguale
che ci schiara le notti, è quello il nostro
paradiso? e le mura ove son esse?
ove i loro custodi?
Egli sale, sale ancora, e finisce per smarrir completamente la terra nella sconfinata immensità dei cieli. Né trova Dio lassù, né quaggiù ritrova la terra fin allora imaginata. Sente la viltà di questa, ma non la sua miseria, giacché il suo spirito ha potuto correre e abbracciar tanto spazio. In vano gli si fa incontro un filosofo con certa aria da sacerdote d’un culto nuovo molto razionale, a predicargli, che alla fin fine la terra poteva bene esprimersi per l’uomo dal vuoto pauroso, orbo di dei, che la circonda, e venir considerata come per sé stessa esistente, piccola patria di piccoli enti, intesi a procacciarsi quaggiù la possibile felicità, poggiando non più in cielo, ma in terra i propri ideali, senz’altro dimandare; l’uomo declamando ancora con solenni gesti e maestosa attitudine quella tirata di superba retorica: Omnes homines, qui sese student...-, non si senti d’imitare il savio bestiame, per cui la sola verità, ch’esista, è l’erba che gli cresce sotto il mento. E allora da questo breve piedistallo della terra si mise tragico e capelluto a domandar disperatamente conto e ragione alla natura di tutto ciò che questa aveva fatto. E qui tra lui e i nuovi sacerdoti s’impegnò una delle più comiche dispute, che i secolari annali della terra avessero mai registrato. Parve finanche all’uomo che gli avessero dato della scimmia, e di ciò s’indignò dispettosamente. Chi mai, se non fu Dio, aveva creato tutte le cose? – Nessuno, gli risposero – l’universo si spiega come formazione naturale, come evoluzione: «voi non potete intenderlo se non restaurate in voi stesso la corrispondenza fra l’intelletto e il vero.» – E che cosa è il vero? – Quel che è! – E che ne sapete voi di quel che è, se non sapete neppure come si formino le vostre idee, in qual maniera dalla decomposizione delle sostanze derivino idee, in qual modo un processo chimico si tramuti in conoscenza delle cose? Nessuna conoscenza, nessuna nozione precisa possiamo aver noi della vita; ma un sentimento soltanto e quindi mutabile e vario. Ma che sentimento! Nella poesia, il sentimento – non nella scienza. – Interrogate la cosmogonia di Laplace, la morfologia di Darwin, la biologia dello Spencer, la sintesi chimica del Berthelot. Che cosa è la natura? «Un simbolo di gruppi meccanici, i quali, spostando continuamente le loro relazioni, ascendono a forme più vaste del moto, portando la propria legge in sé». Se voi investigaste meglio questa legge e l’eterna necessità che governa il reale, non fareste più certe stolte domande frutto dell’orgoglio umano che vuol farsi centro dell’universo. Siete dei pazzi petulanti! Donde si viene? dove si va? Che si aspetta qui nel dubbio della sorte? A quale scopo vivo io? – Ma la vita non ha scopo; la vita ha cause che la determinano, giacché anche noi, come tutto il creato visibile, siamo soggetti alla legge universale della causalità. «La vita è il risultato necessario della funzione di forze meccaniche della natura conforme alle sue leggi, e chiude in sé una certa quantità di piaceri e di dolori. Consistono quelli nel soddisfacimento dei nostri istinti, e gli altri nell’aspirazione vana di poterli soddisfare». Ma ognuno vorrebbe soddisfare i propri istinti. Chi li correggerà? chi li governerà? Quali saranno le norme della condotta? Quali azioni saranno reputate buone e quali cattive, giuste o ingiuste? Qui è il vero nodo; qui è la parte più essenziale del problema. I credenti in Dio lo sapevano e traevano le norme dalla teologia e dall’etica cristiana. Domandatelo alla coscienza – dicono gli intuizionisti. Appigliatevi alla ragione e alle leggi del pensiero, rispondono invece gli idealisti; sono le vere fonti dell’ethos. – Regolatevi secondo l’osservazione degli effetti della condotta – consigliano i seguaci dell’utilitarismo empirico. – No, risponde a tutti lo Spencer, l’etica ha bisogno d’un fondamento intrinseco. Bisogna escludere ogni elemento accidentale ed arbitrario. Le norme della condotta debbono avere il carattere della necessità, che si fonda su rapporti di causalità naturale. Tra causa ed effetti, tra l’azione e i suoi risultati son rapporti uniformi e costanti. Ogni conseguenza è prodotta necessariamente. L’etica cosi intesa ammette però un legame con la dottrina della conoscenza e con la nozione sintetica dell’universo. Essere, sapere, e operare sono tre leggi che dovrebbero immedesimarsi e unificarsi. Allora soltanto l’etica può mostrare le necessità d’uniformarsi alle condizioni dell’esistenza, e designare nell’adattamento la norma direttrice della vita, e nello sviluppo perfettivo il suo ideale. Dal grado di questo adattamento dipende l’utilità – mero resultato, il quale però, secondo lo Spencer, non deve prendersi a scopo immediato della condotta, giacché cosi facendo verrebbe a farsi del consecutivum, un constitutivum. Gli si oppongono i seguaci dell’utilitarismo empirico, e a dir vero, non sono i soli che gli si oppongano.
Le condizioni d’esistenza necessarie a una vita completa nello stato d’associazione sono per lo Spencer uniformi e permanenti. Da ciò l’invariabilità, l’universalità e l’assolutezza d’una legge etico-giuridica, cioè della legge propria di quello stato ideale, a cui l’evoluzione ci sospinge, propria d’una umanità perfettamente adattata alla vita sociale. Lo Spencer dunque arriva a concepire un giusto in sé, a cui corrisponderà la formazione di sentimenti fissi e universali; concepisce insomma un’etica assoluta, che stabilisce quali sieno le eque relazioni tra individui perfetti in una società ideale. Io abbandono all’epica fantasia del poeta Mario Rapisardi la serena concezione di questi uomini perfetti, e di questa società ideale.
Lo Spencer del resto, pel suo modo di considerare le condizioni d’esistenza, trova adesso degli oppositori anche fra coloro che avean fin qui accettato e seguito la sua teoria.
III
Quanto ai vecchi, gli avete intesi: dichiarano, che tanta scienza è passata loro innanzi con poco o nessuno effetto sugli animi, lasciandoli indifferenti, e tornano a Dio. Altri, ostinati a chieder ragione d’ogni cosa, e specialmente di quei fatti, le cui cause ultime ci sono affatto inaccessibili, vedendo che le loro ricerche e le loro indagini non approdano a nulla; da credenti, che erano, si son ridotti a non veder altro che un volgar fenomenismo.
I giovani dàn di sé uno spettacolo ancor più triste. Nati in un momento febrile, quando i padri più che all’amore intendevano a far la guerra per le ricostituzioni civili; cresciuti fra il trambusto dei dibattimenti per dare un possibile assetto ad acquisti, che non avean soddisfatto gli ideali di tutti, tra l’urto di opposte correnti politiche e filosofiche; educati senza un criterio direttivo, e in difetto d’una ingenita forza vitale, costretti troppo presto a procacciarsene una artificiale distruttiva però dell’organismo; fisicamente son tutti o per la massima parte affetti, di neurastenia, moralmente inani.
Nei cervelli e nelle coscienze regna una straordinaria confusione. In questo specchio interiore si riflettono le più disparate figure, tutte però in iscomposte attitudini; come gravate da some insopportabili, e ciascuna consiglia diversamente. A chi dare ascolto, a chi appigliarsi? L’insistenza d’un consiglio vince per un momento la voce d’ogni altro; e noi ci abbandoniamo un tratto a lui con la morbosa impulsività di chi vuol trovare uno scampo e non sa dove. Ostentiamo intanto quasi tutti disprezzo per ogni opinione tradizionale, come per mascherare il sordo incoraggiamento che è in fondo a noi tutti, e il presentimento d’oscuri timori. Simuliamo con certa boria discreta indifferenza per tutto ciò che non sappiamo, e che pure in fondo vorremmo sapere, e ci sentiamo come smarriti, anzi perduti in un cieco, immenso labirinto, circondato tutt’intorno da un mistero impenetrabile. Di vie, ce ne son tante: quale sarà la vera? Va di qua e di là la gente in fretta, e ognuno si dà l’aria di capirci qualche cosa; tanto che certe volte, qualcun di noi si arresta colpito da un grave dubbio, e si domanda: «Ch’io sia solo a non capire nulla?» Eh si, giacché certa gente fa davvero stupire: non può credersi, guardandola, che non sia pienamente convinta, che bisogna restar bestie per tirare avanti almeno in pace! E forse non s’inganna. Intanto per qual via andare? Qual criterio direttivo seguire? Nessuno osa percorrere fino in fondo la sua via, ci fermiamo a metà, ci volgiamo indietro a. guardar gli altri, e il dubbio ci viene alle labbra: E s’io sbaglio? Forse per di là si trova l’uscita. E ci mettiamo per un’altra via. Dietro a noi vengon sempre parecchie persone, come tante guardie del corpo, che imitano i nostri movimenti, ripeton le nostre parole, fan tutto ciò che noi facciamo.
Crollate le vecchie norme, non ancor sorte o bene stabilite le nuove; è naturale che il concetto della relatività d’ogni cosa si sia talmente allargato in noi, da farci quasi del tutto perdere l’estimativa. Il campo è libero ad ogni supposizione. L’intelletto ha acquistato una straordinaria mobilità. Nessuno più riesce a stabilirsi un punto di vista fermo e incrollabile.
I termini astratti han perduto il loro valore, mancando la comune intesa, che li rendeva comprensibili.
Non mai, credo, la vita nostra eticamente ed esteticamente fu più disgregata. Slegata, senz’alcun principio di dottrina e di fede, i nostri pensieri turbinano entro i fati attuosi, che stan come nembi sopra una rovina. Da ciò, a parer mio, deriva per la massima parte il nostro malessere intellettuale. Aspettiamo, e invano, pur troppo! che sorga finalmente qualcuno ad annunziarci il verbo nuovo. E intanto ci volgiamo ora a questo, ora a quel banditore, che berciando con enfasi molta, promette mari e monti, e nulla ottiene naturalmente. Da ciò il sorgere improvviso delle più bizzarre baracche in questa internazionale fiera della follia; castelli di sabbia, cui il menomo soffio atterra; glorie improvvisate, che durano un giorno come i giornali; mode, scuole, combriccole, sorte travolte e scomparse in un momento. Ieri il realismo e il naturalismo, oggi il simbolismo e il misticismo, domani chi sa che cosa. Avete assistito ad un’opera del Wagner? Musica da matti, dicevan ieri. Sublime musica, dicon oggi. Non si capisce bene. Oh ma chi sa che profonda filosofia c’è li dentro. Che li dentro ci sia finalmente il senso della vita? E giù tutti allora per la china del wagnerismo, alle ricerche di questo senso della vita. Avete assistito a un dramma dell’Ibsen? Che vuol da noi questo norvegese? Nessuno sa vederlo chiaramente. Ma basta che qualcuno appaia per un momento incomprensibile, perché subito venga circondato dallo sciame degli indecisi insistente, opprimente come, passatemi la volgare imagine, come dalle mosche uno sputo.
Si è arrivati finanche a formulare una teoria estetica della conoscenza: la conoscenza è fine a sé stessa. Conoscere per conoscere, non conoscere per operare; cioè studiare e non vivere la vita. L’arte consiste nel precisar nettamente i pensieri, nello svolgere le più lievi e riposte pieghe del sentimento, tutti i motivi e le sfumature d’ogni sensazione; intendere, aspirare il profumo della vita, ed oltre andare. L’anima è cosi di passaggio; un’ape curiosa. Questo è il moderno dilettantismo, i cui seguaci voglion trovare nello Stendhal il loro capo.
E un’altra espressione dell’inanismo contemporaneo, che ha per segni caratteristici egoismo, spossatezza morale, mancanza di coraggio di fronte alle avversità, pessimismo, nausea, disgusto di sé stessi, neghittaggine, incapacità di volere, fantasticheria, straordinaria emotività, suggestibilità, bugiarderia incosciente, facile eccitabilità dell’imaginazione, mania d’imitare e sconfinata stima di sé stessi. Esso s’adagia, anzi si sdraia in un concetto di determinismo fatale.
Considerate ora un po’ quest’altri, che per trovare, dicono, uno scampo, sia pur momentaneo, al completo naufragio morale, si son chiusi rigidamente in sé, sciogliendosi, quanto è più stato loro possibile, d’ogni legame, e restringendo man mano bisogni e aspirazioni. Dopo qualche tempo, naturalmente, han cominciato a sentirsi come estranei alla vita, disinteressati e senza curiosità. È nato loro anche un disgusto invincibile per la tanta volgarità quotidiana, e dalla fredda e spassionata osservazione dei sentimenti e delle azioni altrui, su per giù sempre gli stessi, un tedio pesante e una noia smaniosa. Ah, la vita! esclamano: vano e inutile giuoco d’atti e parole! – E dopo e dopo? – è la domanda continua, insistente. Sempre e ovunque le stesse cose! Per cosi poco dunque ci si affanna! – E aspettano invano un avvenimento qualunque, purché nuovo o straordinario, che finalmente venga a scuoterli, a interessarli. Si accorgono adesso, che la presunta liberazione era soltanto rinunzia sdegnosa e dolorosa; e quella calma, solitudine, vuoto, silenzio. Lo spettacolo del mondo dà loro l’imagine d’un’enorme macchina vorace, a cui qualcuno (non si sa perché né come) avesse dato movimento, e a cui senza posa venissero gittati degli esseri, immolate delle vittime, ad alimentarne il gran fuoco. Essi avrebber voluto assistere allo spettacolo di questa universale combustione possibilmente senza bruciare, standosene come tanti tizzi lontani dal fuoco, tra la cenere fredda; ma ora sentono il freddo di questa cenere penetrar loro nell’anima, e immalinconirli profondamente. Intanto, gittarsi nuovamente alle fiamme non sanno, o vorrebbero almeno veder prima chiaramente uno scopo per farlo.
– Ardere, perché?
– Per vivere!
– E vivere, perché?
Alle porte del loro sogno triste e solitario vengono a battere le pallide cure, gravate da un intrico di catene. «Aprite!
il mondo vi reclama. L’ora presente non permette un solitario bene». E batton gli aspri bisogni, ancor più schiavi delle cure: «Aprite, giù voi pure, giù a trascinare anche voi la vostra catena!»
E allora essi invocano Use, la fata amica, che nel castello alpino, premeva le candide mani su gli orecchi del suo principe, perché questi col corpo reclinato sul seno di lei non udisse il suon delle trombe, che lo chiamava alla battaglia.
Dall’irresolutezza del pensiero nasce naturalmente quella dell’azione. Nessun ideale oggi arriva a concretarsi dinanzi a noi in un desiderio intenso veramente, o in un bisogno forte. E come si crede alla vanità della vita, si crede all’inutilità della lotta. Né l’ideale si raggiunge, né il bisogno s’uccide. Si lotta, si vince, si fa un passo innanzi. Ma con noi ne farà uno anche l’ideale, e il bisogno s’ingrandirà, e più andremo e man mano più bisogni nasceranno e vieppiù grandi. Il possesso non risponderà giammai al desiderio, l’uomo non si libererà giammai dalle sue catene. Chi è che pretende, che talvolta egli le spezzi? – Oh no! Dal piede se le passa alle braccia o al collo – più spesso poi da un piede se le passa all’altro; e questo è l’unico sollievo, come per chi è stanco di giacer da un lato, il rivoltarsi dall’altro. Più in alto e più basso, soffrirà lo stesso. Soltanto, noi siamo fatti cosi. Non vogliamo soffrir sempre in una stessa posizione. Cangiando, le nostre smanie s’acchetano un po’. – Ah! – si trae un gran sospiro. Così sto bene! E ci par di sedere sul trono di Giove. Ma presto le nostre smanie ricominciano. Cerchiamo questo, vogliam quest’altro... E c’è sempre qualcosa, che ci sta dinanzi e che non possiamo ghermire. È l’eterna Tantalide! Libertà? Retorica! Siamo alla discrezione della vita.
Ridate voce ai tanti generosi della storia, che lottando per un ideale umano, e raggiungendolo, credettero naturalmente di aver dato alfine uno stabile assetto alla vita. Rifatevi nel passato, cercate e noverate tutti questi generosi per cui l’umanità ha progredito. Ma la vita non sa requie, come non sa requie il mare. E la storia v’apparirà come quel turbo d’anime dantesco in preda a una briga che non ha riposo.
Stolto intanto, chi in base a simili concetti intendesse dimostrare la vanità delle umane azioni. In un’ampia sala di osteria a Berlino, luogo di convegno d’operai socialisti, entra una triste sera d’inverno Guglielmo Einhardt, l’eroe del romanzo La malattia del secolo del Nordau. Egli si sente dapprima offeso dalla volgarità dell’ambiente, dalle attitudini di quelle persone; poi indignato dalla tirata violenta d’un ciarlatano contro alla società moderna e specialmente contro ai ricchi, si leva e domanda di parlare. E dice allora tra il dileggio degli ascoltatori che ai mali della miseria gli operai non dovrebbero aggiungere l’acredine dell’invidia; che soffrono anche loro i ricchi; che l’uguaglianza è un’utopia: non esiste in natura e non esisterà giammai nella società. Tutto ciò nel romanzo fa un grande effetto; ma Guglielmo Einhardt astraendosi in larghe teorie d’indole pessimista, non pensa ch’egli fa della filosofia a danno di chi soffre, e che non può pretendersi dai superstiti che non piangano e non maledicano alla morte, benché il pianto e la maledizione siano invano. Guglielmo Einhardt si astrae anche dal momento storico; e s’egli vede la rovina del vecchio mondo ideale, vuol però anche sapere ciò che a questo mondo s’intenda sostituire, e domanda agli agitatori il perché della loro agitazione. Non ne sente egli dunque la fatalità? Egli domanda dei concetti d’ordine al disordine! Ma la calma s’è fatta sempre dopo ogni tempesta. Ferve negli spiriti un continuo agitarsi d’ombre che accennan leste e dispaiono, procellarie della lotta. E par che tutta la miseria d’una storia secolare aggruppatasi in un turbine voglia urtare, scrollare il vecchio mondo. E noi viviamo in un tramenio vertiginoso che da tutti i lati ci preme, urta e logora.
S’è voluto paragonare questo momento della vita a qualche altro fosco attraversato dall’umanità; s’è voluto finanche vedere non solo il tramonto d’un’intera concezione religiosa, politica e filosofica; ma un crepuscolo dei popoli; non solo una fin de siècle, ma una fin de race.
E tutto ciò, mentre per le scoperte della scienza, che trae quotidianamente a nuovi e meravigliosi scopi le forze, i mezzi della natura, i comodi della vita sono talmente cresciuti, che a tutti dovrebbe riuscir facile e di godimento questa breve dimora terrena. Non sappiamo noi dunque guardarci più intorno e stimare i portenti, che l’uomo in questo tempo ha saputo inventare? Non è dunque più nessuna meraviglia né per gli occhi, né per l’anima?
A un certo lavoro manuale, che avviliva l’uomo fino alla bestia e lo consumava, il progresso oggi per rialzarne la dignità e riserbare a miglior uso le forze di lui ha trovato delle macchine. Ma sapete voi come la pensano e che dicono questi operai tolti al loro lavoro manuale? Uditelo dalla bocca del carpentiere Auler nella commedia Le Colonne della società di Enrico Ibsen. Il console Bernick, proprietario del cantiere, si fa venire innanzi il vecchio Auler e gli dice:
– Conosco le vostre agitazioni, Auler. Voi tenete delle conferenze, è vero? esaltate gli animi degli operai, grufolate; ma appena si tratta di un vero progresso, che ognuno può toccar con mano, come per esempio adesso, con le nostre nuove macchine, voi vi ribellate, dichiarate che non volete più averci a che vedere, diventate smanioso e pauroso.
– Smanioso e pauroso, appunto – risponde Auler – proprio cosi, signor Console. Io divento pauroso per i tanti operai a cui le macchine tolgono il pane. Ella dice spesso, signor Console, che bisogna aver rispetto per la società; ma io penso che la società ha pure i suoi doveri. La scienza e il capitale hanno introdotto nell’industria le nuove scoperte. Ma ha pensato la società a protegger prima, a riparar dalla miseria tutti coloro di cui già si serviva?
– Voi leggete troppo, Auler, voi cavillate troppo! – grida a questo punto urtato il Console Bernick. Badate a voi, vi finirà male, perderete il vostro posto.
– Oh no, signor Console – risponde Auler – mi perdoni; ma non posso considerar tranquillamente a labbra strette, che a causa di queste macchine un bravo operaio debba esser licenziato e lasciato senza pane.
Il Console porta un esempio:
– Quando fu inventata la stampa, cento mila copisti restaron senza pane.
E Auler di rimando:
– Si sarebbe ella, signor Console, rallegrato di questa scoperta, se a quel tempo ella fosse stato un copista?
Su per giù le stesse accuse e le stesse lagnanze muove adesso una certa critica scientifica agli artisti, su cui già per altro pesa la condanna di degenerazione, d’isterismo, eccetera. Vorrebbero alcuni che l’arte si facesse eco o porta voce della corrente democratica che a loro credere attraversa presentemente la coscienza moderna. Altri vorrebbero che l’arte si mettesse a inneggiare ai trionfi della scienza, e arrivano fino a proporre alla nuova lira un gran numero di straordinari motivi lirici.
Che l’arte sia per così dire il polso della vita, che l’arte segua e rifletta la vita in ogni movimento e in ogni emanazione, è osservazione ovvia e indiscussa. Considerando i vari accenni del tempo, l’inclinazione del pensiero e dell’opere d’oggi, quale sarà l’arte di domani? Per la critica noi possiamo farci benissimo o rivolgere altrui questa domanda, guai a noi però se ce la rivolgessimo per l’arte, se s’intendesse cioè in base a un criterio o ad un ragionamento edificar la nostra opera artistica, che deve nascer spontaneamente dal sentimento.
Io non so se la coscienza moderna sia veramente così democratica e scientifica come oggi comunemente si dice. Non capisco certe affermazioni astratte. A me la coscienza moderna dà l’imagine d’un sogno angoscioso attraversato da rapide larve or tristi or minacciose, d’una battaglia notturna, d’una mischia disperata, in cui s’agitino per un momento e subito scompaiano, per riapparirne delle altre, mille bandiere, in cui le parti avversarie si sian confuse e mischiate, e ognuno lotti per sé, per la sua difesa, contro all’amico e contro al nemico. E in lei un continuo cozzo di voci discordi, un’agitazione continua. Mi par che tutto in lei tremi e tentenni. Alla calma fiduciosa di certa gente serena non credo. Che avverrà domani? Siamo certamente alla vigilia d’un enorme avvenimento. E sorgerà forse anche adesso il genio che stendendo l’anima alla tempesta che appressa, al mare che dilagherà rompendo ogni argine e ingoiando le rovine, creerà il libro unico, secolare, come in altri tempi è avvenuto.
1 Vedi intorno al Guerra Junqueiro sulla Tavola Rotonda di Napoli un articolo e alcune traduzioni di Ugo Fleres. [n.d.A.]